La mia esperienza clinica con questi prodotti è, per forza di cose, indiretta e recente: sono stati immessi in commercio tra il 2020 e il 2021 e, almeno inizialmente, il loro utilizzo non era particolarmente diffuso, quantomeno nelle zone in cui opero.
Il mio punto di vista è inevitabilmente parziale, perché i pazienti che seguo arrivano da me con una storia clinica lunga, intensa e spesso complessa. Si tratta di animali che non stanno più ottenendo benefici da trattamenti precedenti, e la probabilità che abbiano sperimentato effetti avversi da farmaci o che le terapie convenzionali abbiano fallito è decisamente più alta rispetto a quanto osservato dai colleghi che operano esclusivamente all’interno della medicina convenzionale allopatica. La mia attività finisce per raccogliere e concentrare proprio questi casi, rendendo più frequente l’osservazione di situazioni cliniche rare.
Nel corso degli ultimi anni, durante la raccolta dell’anamnesi remota e della storia terapeutica, ho iniziato a notare ricorrenze in alcuni casi molto difficili, spesso refrattari a ogni trattamento. Erano animali con gravi difficoltà articolari o viscerali — inclusi episodi di incontinenza, ipofunzionalità gastrica, paresi del piloro — oppure in stato di marcata ipovitalità, con letargia profonda, assenza di reattività agli stimoli, inappetenza e disinteresse totale verso l’ambiente.
In molti di questi pazienti, accanto a una lunga lista di terapie tradizionali, compariva anche l’utilizzo di anticorpi monoclonali, impiegati per il trattamento dell’osteoartrite.
In alcuni casi, l’uso era extra-etichetta, per esempio in animali con sospette ernie discali o infiammazioni dei nervi spinali. Eppure, sappiamo quanto l’NGF sia fondamentale per la rigenerazione nervosa: utilizzare un anticorpo che lo neutralizza può risultare, in questi contesti, non solo inutile, ma potenzialmente dannoso.
Da queste osservazioni è nata una serie di interrogativi che mi hanno spinto a raccogliere documentazione scientifica sull’NGF e sulle molecole sviluppate per inibirlo. Ho così costruito un archivio sempre più ampio, che è diventato la base della presente monografia.
Buona lettura!
Il concetto di “Magic Bullet”
L’idea di “Magic Bullet” nasce agli inizi del Novecento con Paul Ehrlich, immunologo e medico tedesco, premio Nobel per la medicina nel 1908 per i suoi studi sull’immunità e in particolare sul siero terapeutico contro la difterite. Ehrlich immaginava l’esistenza di sostanze capaci di colpire selettivamente agenti patogeni o cellule malate senza danneggiare le cellule sane, un’idea che ha segnato profondamente la farmacologia moderna. Il termine stesso, “proiettile magico” (in tedesco, Zauber Kugel), evocava la possibilità di creare un principio attivo preciso come un colpo infallibile, in grado di colpire un bersaglio e solo quello, senza effetti collaterali [1]. Ehrlich trasse ispirazione per questa metafora dall’opera romantica Der Freischütz, composta nel 1821 da Carl Maria von Weber, in cui il protagonista utilizza proiettili magici.
Alla fine di questa monografia verrà svelato un dettaglio molto particolare: un elemento chiave della leggenda che getta una luce inaspettata sul concetto scientifico di magic bullet.
L’espressione sembra derivare da una leggenda popolare o opera teatrale tedesca del XIX secolo, in cui un giovane tiratore riceve dei proiettili incantati capaci di colpire qualunque bersaglio, ma a un prezzo nascosto e fatale. Questa metafora, ricca di implicazioni simboliche, fu adottata da Ehrlich per descrivere la sua visione di farmaci intelligenti, capaci di discriminare il bersaglio biologico tra migliaia di strutture fisiologiche simili.[2]
Il concetto ha esercitato un’influenza determinante sullo sviluppo degli anticorpi monoclonali, che rappresentano oggi una delle più concrete incarnazioni del “Magic Bullet”: molecole disegnate per riconoscere selettivamente un epitopo specifico su una proteina bersaglio, attivando o bloccando funzioni precise all’interno dell’organismo. Da intuizione teorica e poetica, il proiettile magico si è trasformato così in un paradigma operativo per la medicina molecolare del XXI secolo.
Dall’immunoterapia classica alle terapie monoclonali
Il concetto di “Magic Bullet”, originato da Paul Ehrlich, ha trovato una prima realizzazione concreta nella sieroterapia: l’uso di anticorpi prodotti da un altro organismo per neutralizzare tossine batteriche, come avvenne con il siero antidifterico sviluppato da Behring ed Ehrlich alla fine dell’Ottocento. In questo contesto, l’immunoterapia era intesa come stimolazione passiva del sistema immunitario mediante anticorpi già formati. Col tempo, però, la ricerca ha orientato l’attenzione verso strategie più raffinate: la possibilità di indurre la produzione endogena di anticorpi mediante vaccini (immunizzazione attiva) e, in parallelo, l’ingegnerizzazione di anticorpi esogeni, sintetizzati in laboratorio per colpire bersagli molecolari specifici.
Gli anticorpi monoclonali rappresentano l’evoluzione più sofisticata di questo paradigma. Originati grazie alla tecnologia degli ibridomi descritta da Köhler e Milstein negli anni ’70, questi anticorpi derivano da un unico clone cellulare e riconoscono un unico epitopo, rendendo possibile una precisione d’azione farmacologica senza precedenti. Nei decenni successivi, la tecnologia è stata ulteriormente raffinata attraverso lo sviluppo di anticorpi “umanizzati”, “felinizzati” o “caninizzati” per ridurre le reazioni immunitarie contro il farmaco stesso.
Oggi, gli anticorpi monoclonali sono parte integrante sia della medicina umana sia di quella veterinaria, dove sono utilizzati per trattare malattie croniche e infiammatorie, inclusa l’osteoartrite nel cane e nel gatto. In questo senso, il legame tra la visione iniziale di Ehrlich e l’uso moderno di molecole biotecnologiche ad alta specificità è diretto: la medicina contemporanea continua a perseguire l’ideale del proiettile magico, cercando di sviluppare strumenti sempre più mirati e meno invasivi.
NGF: scoperta e funzioni
Il fattore di crescita nervoso (NGF) fu scoperto negli anni ’50 da Rita Levi-Montalcini, grazie a una serie di esperimenti condotti in collaborazione con Viktor Hamburger. Le osservazioni iniziali dimostrarono che alcuni tumori murini inducevano una crescita abnorme dei gangli nervosi sensoriali e simpatici negli embrioni di pollo, suggerendo la presenza di una molecola diffusibile capace di promuovere la proliferazione neuronale. L’NGF venne isolato successivamente anche dal veleno di serpente e dalle ghiandole salivari del topo, che ne costituivano fonti particolarmente ricche, permettendo così una caratterizzazione biochimica più accurata [3].
L’articolo pubblicato nel 1968 da Levi-Montalcini e Angeletti sintetizzò decenni di ricerche, mostrando che l’NGF è essenziale non solo per lo sviluppo dei neuroni sensoriali e simpatici, ma anche per il loro mantenimento nell’organismo adulto [3]. La molecola agisce legandosi a due recettori principali: il recettore ad alta affinità TrkA e quello a bassa affinità p75NTR. Il bilancio tra questi due recettori modula gli effetti dell’NGF, che può promuovere la sopravvivenza cellulare oppure, in certi contesti, innescare processi apoptotici.
Nel tempo è emerso che l’NGF ha un ruolo chiave anche al di fuori del sistema nervoso. Partecipa a numerosi processi fisiologici tra cui infiammazione, omeostasi immunitaria, riparazione tissutale e angiogenesi. È prodotto da molteplici tipi cellulari, tra cui fibroblasti, cheratinociti, cellule immunitarie e cellule endoteliali [5].
La sua azione si estende dunque ben oltre il dominio neuronale, configurandolo come una molecola pleiotropica fondamentale per l’equilibrio dell’organismo adulto.
Il legame tra NGF e dolore da osteoartrite
L’attenzione verso il nerve growth factor (NGF) come bersaglio terapeutico per il dolore cronico è cresciuta a seguito dell’osservazione che, nei soggetti affetti da osteoartrite (OA), i livelli di NGF risultano significativamente aumentati nei tessuti articolari infiammati. L’NGF agisce legandosi al recettore TrkA presente sui neuroni sensoriali periferici, attivando una cascata di segnali che conduce alla sensibilizzazione dei nocicettori e all’abbassamento della soglia del dolore[6]. Questo meccanismo è cruciale nello sviluppo dell’iperalgesia e nella transizione dal dolore acuto a quello cronico, anche in assenza di stimoli persistenti[7].
Il razionale terapeutico per l’inibizione dell’NGF si basa quindi sulla possibilità di interrompere questo circuito di sensibilizzazione mediante anticorpi monoclonali specifici. Diversi anticorpi anti-NGF sono stati sviluppati in medicina umana, tra cui tanezumab, fasinumab e fulranumab, con l’obiettivo di trattare il dolore moderato-grave da OA resistente ai farmaci convenzionali[8].
Gli studi clinici condotti sull’uomo hanno mostrato un’efficacia analgesica dose-dipendente. Tanezumab, ad esempio, ha prodotto miglioramenti statisticamente significativi nei punteggi WOMAC (dolore, funzionalità fisica e valutazione globale del paziente) rispetto al placebo e, in alcuni casi, rispetto ai FANS[9]. Anche fasinumab ha mostrato una riduzione significativa del dolore articolare nei trial clinici di fase 2b/310. Tuttavia, questi benefici sono stati accompagnati da segnali di rischio rilevanti: la comparsa, in una piccola percentuale di pazienti, di una forma atipica di deterioramento articolare noto come rapidly progressive osteoarthritis (RPOA), una condizione degenerativa accelerata, non compatibile con il decorso naturale della malattia [9,10,11].
Il rischio di RPOA è risultato dose-dipendente e aumentava con la somministrazione concomitante di FANS. In uno degli studi cardine su tanezumab, l’incidenza di RPOA variava dall’1,4% al 2,8% a seconda della dose, contro lo 0% nei gruppi placebo [9]. Questi eventi hanno portato la FDA a imporre nel 2010 un blocco temporaneo su tutti i programmi clinici anti-NGF, revocato solo nel 2015 con forti restrizioni e sistemi di monitoraggio intensivo [11].
Nel complesso, l’inibizione dell’NGF ha dimostrato di possedere un forte potenziale analgesico nell’OA, ma anche una non trascurabile incidenza di eventi avversi articolari gravi, che ne hanno impedito l’approvazione definitiva per uso umano. Le evidenze raccolte hanno però contribuito a orientare lo sviluppo di anticorpi monoclonali anti-NGF anche in campo veterinario, con un razionale condiviso ma con iter regolatori più rapidi e meno severi.
Fallimento dell’approvazione umana: i casi di RPOA
Nonostante l’efficacia dimostrata nel controllo del dolore, i tentativi di autorizzare l’uso clinico di anticorpi monoclonali anti-NGF nell’uomo sono stati ostacolati da gravi segnali di sicurezza. In più cicli di valutazione, culminati tra il 2019 e il 2021, la Food and Drug Administration (FDA) statunitense ha rifiutato l’autorizzazione alla commercializzazione di questi farmaci per l’uso umano, a causa della comparsa di una forma rara ma devastante di osteoartrite accelerata, nota come Rapidly Progressive Osteoarthritis (RPOA)[12].
Questa sindrome, caratterizzata da un rapido deterioramento articolare con grave disabilità funzionale, è stata osservata con incidenza significativamente maggiore nei gruppi trattati rispetto ai controlli placebo durante gli studi clinici sull’uomo. In alcuni casi, la degenerazione articolare era tale da richiedere interventi chirurgici radicali o risultare invalidante entro pochi mesi dall’inizio della terapia 13,14].
Anche in presenza di risultati positivi sul piano analgesico, il profilo rischio-beneficio non è stato ritenuto accettabile. L’FDA ha imposto più volte una sospensione temporanea degli studi clinici, e successivamente ha richiesto un rigoroso piano di mitigazione del rischio, senza che si raggiungesse un consenso sufficiente per l’approvazione definitiva[15].
Le ipotesi sul meccanismo alla base della RPOA restano ancora parzialmente speculative. Inizialmente si pensava che la soppressione del dolore potesse portare a un uso eccessivo delle articolazioni compromesse, accelerandone il danno meccanico. Tuttavia, i dati raccolti non confermano unicamente questa spiegazione: si ipotizza piuttosto che l’NGF svolga un ruolo essenziale anche nella regolazione dell’equilibrio trofico articolare, e che la sua inibizione prolungata possa compromettere processi di riparazione e mantenimento[16].
Applicazione in medicina veterinaria: il caso di cane e gatto
In ambito veterinario, il percorso regolatorio degli anticorpi monoclonali anti-NGF ha avuto uno sviluppo radicalmente diverso da quello osservato in medicina umana. Due prodotti distinti, frunevetmab per il gatto (nome commerciale: Solensia®) e bedinvetmab per il cane (nome commerciale: Librela®), sono stati autorizzati all’immissione in commercio dall’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) per il trattamento del dolore da osteoartrite[17].
L’approvazione si è basata su studi clinici registrativi (vedi approfondimento in appendice) che hanno documentato miglioramenti significativi nella qualità della vita, nella mobilità e nel comportamento associato al dolore, valutati attraverso questionari compilati dai proprietari e osservazioni cliniche veterinarie. Per frunevetmab, uno studio multicentrico randomizzato controllato ha mostrato una risposta clinica positiva nel 76% dei gatti trattati rispetto al 64% dei soggetti placebo, con un profilo di sicurezza ritenuto favorevole[18]. Risultati analoghi sono stati ottenuti con bedinvetmab nei cani, con una differenza statisticamente significativa nella riduzione del dolore misurato con la scala Canine Brief Pain Inventory (CBPI)[19].
Tuttavia, l’approvazione è avvenuta sulla base di un numero relativamente limitato di studi tossicologici. Come riportato nei documenti ufficiali dell’EMA per il bedinvetmab, gli studi preclinici sono stati condotti esclusivamente su cani di razza Beagle, giovani e sani, in assenza di patologie osteoarticolari [17]. Non sono stati inclusi animali anziani, politrattati o affetti da comorbidità, che rappresentano invece il target clinico reale del farmaco. Inoltre, gli effetti osservati su organi bersaglio e parametri biochimici sono stati attribuiti a “condizioni di stress da laboratorio”, riducendone così la rilevanza nella valutazione di sicurezza [17].
Nelle informazioni sul prodotto (RCP) al momento dell’immissione in commercio, l’unico effetto avverso comunemente riportato era una reazione lieve e transitoria nel sito di iniezione. Le autorità regolatorie hanno tuttavia segnalato che la formazione di anticorpi anti-farmaco è possibile e potrebbe ridurre l’efficacia nel tempo, pur considerandola un evento raro[20].
Il razionale terapeutico che ha guidato lo sviluppo di Solensia e Librela resta quello del “proiettile magico”: un farmaco ad alta specificità capace di neutralizzare selettivamente l’NGF per controllare il dolore cronico, con un impatto minimo sulle altre funzioni dell’organismo. Ma la mancanza di una valutazione estesa in condizioni cliniche complesse, unita al fatto che gran parte delle evidenze cliniche, tossicologiche e di efficacia alla base dell’approvazione di Solensia e Librela proviene da studi condotti, finanziati o sponsorizzati direttamente dall’azienda produttrice, e non da gruppi di ricerca indipendenti, rende opportuno un monitoraggio continuo nella pratica clinica.
Criticità scientifiche ed etiche negli studi pre-autorizzativi
Gli studi preclinici e tossicologici condotti per ottenere l’autorizzazione all’immissione in commercio di Solensia® e Librela® presentano alcune limitazioni metodologiche rilevanti, sia dal punto di vista scientifico che etico. Come riportato nei documenti ufficiali dell’EMA, tali studi sono stati effettuati su un numero ridotto di animali e, in particolare per il bedinvetmab, appartenenti a un’unica razza (Beagle), giovani, sani e privi della patologia oggetto del trattamento, cioè l’osteoartrite[21]. Questo modello sperimentale, pur standardizzato, non rappresenta in modo realistico la popolazione clinica cui il farmaco è destinato: animali spesso anziani, affetti da condizioni croniche multifattoriali e sottoposti a trattamenti concomitanti.
Inoltre, numerosi effetti collaterali emersi durante gli studi di tossicità a dosaggi elevati — alterazioni metaboliche, variazioni ematologiche e lesioni istologiche — sono stati attribuiti dagli autori a “condizioni di stress da laboratorio” oppure preesistenti allo studio come variazioni individuali, riducendone così l’impatto interpretativo all’interno del quadro di sicurezza del farmaco [21]. Tali attribuzioni, benché previste dalle linee guida regolatorie, sollevano perplessità rispetto all’oggettività dell’analisi, soprattutto in assenza di un confronto con animali clinicamente più simili a quelli che riceveranno il trattamento nella pratica.
Sul piano etico, la conduzione degli studi esclusivamente da parte della stessa azienda produttrice e la mancanza di validazione indipendente degli esiti accentuano il rischio di conflitto di interessi. Le autorità regolatorie europee hanno comunque considerato sufficienti i dati per autorizzare i prodotti, a condizione di mantenere un monitoraggio post-marketing attivo e continuo [21]. In questo contesto, diventa centrale il ruolo dei medici veterinari nel segnalare tempestivamente eventuali eventi avversi e nel valutare con cautela l’idoneità del farmaco caso per caso.
Osservazioni post-marketing e segnalazioni di effetti avversi
Dopo l’introduzione in commercio di Solensia® e Librela®, sono emerse segnalazioni spontanee di effetti avversi che non erano stati evidenziati durante gli studi pre-autorizzativi. In particolare, sono stati descritti casi di zoppia improvvisa, instabilità motoria, difficoltà di deambulazione, fratture patologiche, peggioramento articolare accelerato e, in alcuni casi, comparsa di lesioni gravi in articolazioni precedentemente non compromesse [22].
Una pubblicazione retrospettiva, apparsa su Frontiers in Veterinary Science, la seconda più citata rivista di medicina veterinaria al mondo, il 9 maggio 2025, ha raccolto 19 casi clinici in cui l’impiego di bedinvetmab nei cani è stato associato a eventi muscoloscheletrici gravi, come lussazioni, necrosi articolari, artropatie a rapida progressione e fratture in assenza di traumi rilevanti. Il comitato di revisione, composto da clinici esperti in ortopedia, neurologia, oncologia e diagnostica per immagini, ha identificato in più della metà dei casi un forte sospetto di correlazione causale tra il farmaco e l’evento patologico osservato[22].
Una delle difficoltà principali emerse nello studio è legata alla somiglianza tra i sintomi della malattia di base (osteoartrite) e quelli degli effetti avversi potenzialmente indotti dal trattamento. Questo ha portato, in molti casi, a ritardi nella sospensione del farmaco o alla mancata segnalazione dell’evento. Inoltre, la maggior parte dei casi clinici analizzati non prevedeva l’esecuzione di indagini radiografiche o RMN prima dell’inizio del trattamento, rendendo difficile documentare con certezza l’evoluzione delle lesioni [22].
Nel documento si sottolinea anche che, in diversi casi, gli effetti avversi sono comparsi dopo la seconda o la terza somministrazione, suggerendo una possibile reazione cumulativa o una latenza d’azione. Questi elementi hanno rafforzato l’invito alla cautela, all’utilizzo selettivo del farmaco e a una sorveglianza clinica attiva da parte dei medici veterinari.
In sintesi, l’esperienza post-marketing suggerisce che la tollerabilità osservata negli studi registrativi potrebbe non riflettere appieno la realtà clinica, soprattutto nei soggetti più anziani o con comorbidità articolari multiple. Ciò conferma l’importanza di un monitoraggio attento, di baseline diagnostiche accurate e della disponibilità a rivalutare criticamente l’impiego del farmaco caso per caso.
Né demonizzare né glorificare: una valutazione critica
Le segnalazioni post-marketing e le osservazioni retrospettive non annullano il beneficio clinico che alcuni animali hanno mostrato in risposta alla terapia con anticorpi monoclonali anti-NGF. In numerosi casi, Solensia e Librela hanno effettivamente migliorato la qualità della vita, la mobilità e l’interazione quotidiana di cani e gatti affetti da dolore cronico da osteoartrite[23]. Tuttavia, è altrettanto evidente che questi risultati positivi non possono essere considerati rappresentativi dell’intera popolazione trattata.
L’inibizione dell’NGF, molecola chiave in molteplici processi fisiologici (tra cui la neuroprotezione, la modulazione infiammatoria e la riparazione tissutale), non è un atto privo di conseguenze. L’azione selettiva e prolungata su un bersaglio biologico così centrale può produrre squilibri sistemici, soprattutto se applicata su larga scala, in soggetti clinicamente fragili o già compromessi [24].
È quindi necessario uscire da una visione binaria che oppone “farmaco sempre utile” e “farmaco sempre dannoso”, per accedere a un piano di valutazione più maturo, in cui il valore di un trattamento si misura nel contesto specifico del singolo animale, delle sue condizioni cliniche, della risposta alle terapie precedenti e delle aspettative realistiche di miglioramento. Un farmaco può essere risolutivo in alcuni casi, e inappropriato o rischioso in altri.
In questo senso, l’uso degli anti-NGF richiede una posizione critica e vigilante: né rifiutata a priori, né accettata come soluzione universale. Il ruolo del medico veterinario resta centrale nel formulare una decisione consapevole, discutendola con il tutore dell’animale sulla base di informazioni complete, trasparenti e aggiornate.
Proposte: uso responsabile e considerazione di alternative
Alla luce dei benefici osservati in alcuni casi clinici e delle criticità emerse sia in ambito preclinico che post-marketing, l’impiego di anticorpi monoclonali anti-NGF in medicina veterinaria dovrebbe seguire un criterio di selettività e proporzionalità. Questi farmaci andrebbero riservati a situazioni in cui il dolore osteoartrosico risulta refrattario ad altri approcci, e non proposti come trattamento di prima linea nei soggetti anziani o fragili, senza una valutazione approfondita delle condizioni generali e dell’evoluzione della patologia [22].
Un uso responsabile richiede innanzitutto che siano considerate tutte le opzioni terapeutiche disponibili. In molti animali con osteoartrite cronica, si possono ottenere miglioramenti rilevanti anche attraverso strategie integrate: nutraceutica mirata, fitoterapia, omeopatia, omotossicologia, modifiche dietetiche, fisioterapia, osteopatia, agopuntura e approcci ambientali adattati alla ridotta mobilità. Queste terapie, quando ben selezionate e personalizzate, possono contribuire a modulare il dolore, migliorare la funzionalità articolare e sostenere l’equilibrio generale senza interferire con i meccanismi fisiologici profondi come accade con l’inibizione dell’NGF [4].
È inoltre importante interrogarsi sull’effetto cumulativo di altre pratiche sanitarie frequentemente impiegate, come vaccinazioni ripetute, antiparassitari di sintesi, somministrazioni standardizzate di farmaci da banco. In particolare, nei soggetti geriatrici, la somma di stimoli immunitari non sempre necessari può aumentare lo stato infiammatorio di base (inflamming) e peggiorare il dolore articolare cronico [4].
In questo contesto, il ruolo del veterinario non è semplicemente quello di scegliere un farmaco, ma di accompagnare il tutore dell’animale in un percorso di cura ragionato, in cui la scelta di un trattamento viene inserita in una visione più ampia, che tenga conto di tutta la storia clinica, delle risorse disponibili e degli obiettivi reali di miglioramento della qualità della vita.
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Cos’è l’osteoartrite?
L’osteoartrite è una malattia cronica che colpisce le articolazioni, causando dolore, rigidità e difficoltà nei movimenti. Si sviluppa nel tempo e peggiora progressivamente, soprattutto nei cani e gatti anziani o dopo traumi e malformazioni.
Non è solo “usura”: coinvolge anche infiammazione e cambiamenti nelle ossa e nei tessuti articolari.
Cos’è un anticorpo monoclonale?
È una proteina creata in laboratorio per riconoscere e legarsi in modo molto specifico a una certa molecola del corpo, come un segnale di malattia. Agisce come un “cercatore” mirato, bloccando o modificando l’azione della molecola bersaglio.
Viene usato in medicina e veterinaria per trattare infiammazioni, dolori o malattie del sistema immunitario.
Cos’è l’NGF?
NGF significa Nerve Growth Factor (fattore di crescita nervoso).
È una molecola naturale prodotta dal corpo che aiuta i nervi a svilupparsi, mantenersi sani e a trasmettere correttamente il dolore.
Quando c’è infiammazione o danno, l’NGF aumenta e può rendere i nervi più sensibili, amplificando la percezione del dolore.
❖Il fattore di Crescita Nervoso
Le sue funzioni e cosa può succedere quando manca o diminuisce.
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Fonti Bibliografiche
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[35] Schnitzer TJ, Easton R, Pang S, et al. Effect of tanezumab on joint pain, physical function, and patient global assessment of osteoarthritis among patients with osteoarthritis of the hip or knee. JAMA. 2019;322(1):37–48
[36] Dakin P, DiMartino SJ, Gao H, et al. The efficacy, tolerability and joint safety of fasinumab in patients with moderate-to-severe osteoarthritis: A phase IIb/III trial. Arthritis Rheumatol. 2019;71(11):1824–1834.
[37] Kelly MP, Toyserkani NM, Dunlop D, et al. Safety and efficacy of fulranumab in moderate-to-severe osteoarthritis: pooled analysis of phase 3 trials. Pain Res Manag. 2019;2019:4719791
[38] Dakin P, DiMartino SJ, Gao H, et al. ibid.
[39] Kelly MP, Toyserkani NM, Dunlop D, et al. ibid.
[40] Zhang W, Robertson J, Jones AC, et al. Risk of rapidly progressive osteoarthritis and joint safety in anti-NGF therapy: a meta-analysis of randomised controlled trials. RMD Open. 2021;7(1):e001480.
[41] Aloe L, Rocco ML, Balzamino BO, Micera A. Nerve Growth Factor: A Focus on Neuroscience and Therapy. Curr Neuropharmacol. 2015;13(3):294–303.
Approfondimenti
Studio di registrazione del bedinvetmab: impostazione sperimentale e criticità metodologiche
Lo studio condotto per ottenere l’autorizzazione all’immissione in commercio del bedinvetmab è stato formalmente ineccepibile sul piano regolatorio, ma presenta elementi critici rilevanti dal punto di vista scientifico e clinico. Si è trattato di uno studio preclinico GLP-compliant, finalizzato a valutare la sicurezza dell’anticorpo monoclonale anti-NGF in cani adulti, utilizzando un gruppo omogeneo di Beagle da laboratorio, sani, di età compresa tra 10 e 12 mesi, peso 5–12,7 kg, di entrambi i sessi.
L’osservazione è durata sei mesi, con somministrazioni mensili a dosi comprese tra 1× e 10× rispetto a quella terapeutica. Al termine dello studio, tutti gli animali sono stati soppressi e sottoposti ad autopsia completa. Non sono emerse lesioni macroscopiche o microscopiche attribuibili al farmaco. Le lievi reazioni locali nel sito di inoculo sono state considerate legate alla modalità di somministrazione e non al principio attivo [34].
Alcune variazioni nei pesi assoluti o relativi di organi interni (milza, cuore, reni, ipofisi) sono state interpretate come variabilità individuale, in assenza di correlati istologici. Le alterazioni fisiologiche osservate – come un lieve aumento del pH urinario – non sono state considerate clinicamente significative. In un caso si è osservata la progressione unilaterale di una degenerazione articolare bilaterale già presente al baseline, ma non è stato attribuito un nesso causale con il trattamento [34].
Tuttavia, il modello sperimentale adottato – cani giovani, sani, geneticamente omogenei, senza patologie articolari spontanee – non riflette la popolazione clinica a cui il farmaco è destinato. Non sono state simulate condizioni reali come osteoartrite cronica, età avanzata, sovraccarico articolare o comorbidità. Le valutazioni articolari sono state condotte esclusivamente al termine dello studio, impedendo di rilevare eventuali alterazioni subcliniche, progressive o precoci [34].
La durata limitata dello studio – sei mesi – corrisponde al minimo richiesto per fini regolatori, ma è insufficiente a far emergere effetti avversi a lungo termine. Negli studi clinici sull’uomo con altri anticorpi anti-NGF, eventi avversi articolari gravi – in particolare la RPOA (Rapidly Progressive Osteoarthritis) – sono stati osservati già entro le 16–24 settimane di trattamento, con maggiore incidenza nei soggetti che assumevano FANS in concomitanza [35]. È importante evidenziare che i pazienti coinvolti in questi trial erano affetti da osteoartrite moderata o severa, con articolazioni strutturalmente compromesse e attivamente infiammate [36]. Ciò rappresenta una condizione biologicamente molto diversa rispetto a quella dei cani giovani e sani usati nello studio preclinico, le cui articolazioni erano integre: in assenza di danni o infiammazioni, eventuali effetti negativi del farmaco potrebbero semplicemente non venire fuori.
Confronto con gli studi sull’uomo
Negli studi sull’uomo, i pazienti trattati con anticorpi monoclonali anti-NGF erano persone reali, con osteoartrite da moderata a severa e articolazioni già danneggiate 35. Si trattava di studi di fase II e III, condotti su pazienti non responsivi ai trattamenti convenzionali [36]. La durata variava da 16 a 56 settimane, superiore a quella dello studio preclinico condotto sul cane [37].
A differenza del modello animale, basato su autopsia finale, negli studi umani venivano eseguite valutazioni cliniche e radiografiche seriali della progressione articolare, con imaging ripetuto nel tempo [38]. Questo ha permesso di identificare eventi avversi gravi, come la Rapidly Progressive Osteoarthritis (RPOA), rilevata esclusivamente nei gruppi trattati. L’incidenza variava dall’1% al 3%, con un aumento nei soggetti trattati con FANS o dosi elevate [35]. In altri casi sono state descritte lesioni articolari dose-dipendenti nel 7% dei pazienti anche a dosi intermedie [36].
La comparsa di anticorpi anti-farmaco (ADA) è stata bassa, ma attentamente monitorata. Nella maggior parte dei casi non sono stati correlati a eventi clinici gravi, ma restano una variabile da considerare nella pratica clinica [39].
Per quanto riguarda gli effetti neurologici, i pazienti trattati hanno riportato parestesie, iperestesie e neuropatie periferiche, più frequenti rispetto al gruppo placebo [40]. Sono stati documentati anche disturbi sensoriali sottili che non sono rilevabili in un modello animale giovane e sano. [40]
Infine, va ricordato che il Nerve Growth Factor svolge un ruolo fondamentale nella regolazione della sensibilità, nella trasmissione nervosa e nei processi di rigenerazione neuronale [41] . Bloccare questa molecola significa interferire con meccanismi fisiologici profondi, anche in assenza di segni macroscopici immediati.
Criticità dello studio preclinico sul cane
Il modello sperimentale scelto per la valutazione della sicurezza del bedinvetmab nel cane presenta limiti metodologici rilevanti. Gli animali utilizzati erano Beagle di laboratorio, clinicamente sani, giovani (10–12 mesi), geneticamente omogenei, selezionati appositamente per studi regolatori. Nessuno presentava osteoartrite o condizioni articolari degenerative. In altre parole: soggetti ideali per ottenere un profilo “pulito”.
Non è stata effettuata alcuna simulazione di condizione clinica reale: né età avanzata, né osteoartrite spontanea, né comorbidità. La giovinezza degli animali, che corrisponde a massima plasticità tissutale, è di per sé un fattore protettivo verso i danni articolari cumulativi.
Anche la durata dello studio, limitata a sei mesi, corrisponde al minimo richiesto dalle linee guida regolatorie, ma non è sufficiente per far emergere danni articolari lenti, progressivi o dose-dipendenti, come quelli osservati nell’uomo dopo esposizione prolungata [40].
Non è stato previsto alcun tipo di stress articolare. Nessun esercizio fisico intenso, nessuna simulazione di lavoro, nessuna condizione di carico meccanico ripetuto. Tutti fattori che, in un contesto clinico reale, possono influenzare la risposta articolare al trattamento.
Il monitoraggio morfologico è stato condotto esclusivamente alla fine dello studio. Non sono state effettuate valutazioni dinamiche, né imaging articolari seriali. Nessuna risonanza, nessuna radiografia programmata, nessuna verifica intermedia. Solo autopsia. In questo contesto, è impossibile cogliere alterazioni precoci o subcliniche. Le lesioni unilaterali o lievi possono essere ignorate o classificate come “variabilità individuale”. Qualsiasi anomalia isolata può essere ricondotta a una condizione preesistente e esclusa dalle conclusioni ufficiali.
Anche l’assenza di trattamento concomitante con FANS elimina un altro fattore che, negli studi umani, ha aumentato il rischio di danno articolare rapido [35]. Nel cane, è stato eseguito un test di sole due settimane con carprofen, che ovviamente non è paragonabile a un uso prolungato in un paziente con OA avanzata.
Lo studio è formalmente valido, costruito per risultare regolamentariamente inattaccabile. Ma non rappresenta né riproduce le condizioni cliniche in cui il farmaco verrà impiegato. Forse è stato progettato per rassicurare più che per verificare le ipotesi di ricerca?
Limiti strutturali e responsabilità etica
Lo studio sul bedinvetmab è stato progettato per rispondere ai requisiti minimi richiesti per l’autorizzazione regolatoria. È stato finanziato, condotto e valutato da soggetti direttamente coinvolti nello sviluppo del farmaco. La selezione degli animali, la durata dell’osservazione, l’assenza di condizioni cliniche reali e la mancanza di follow-up funzionali hanno prodotto un risultato formalmente valido, ma scientificamente povero.
La riflessione finale è che, al di là dei regolamenti, al di là del mercato, al di là dei farmaci, dovremmo sempre ricordare che ogni molecola che viene utilizzata nella pratica clinica è passata attraverso una sperimentazione animale. E che questa sperimentazione, per essere considerata completa secondo le attuali norme, prevede spesso — quasi sempre — il sacrificio finale degli animali coinvolti, tutti, per poter procedere all’autopsia.
Per molti, tutto questo può sembrare normale. Forse inevitabile.
Personalmente, però, questa modalità di procedere, questa idea di intendere la vita — che ci siano vite che valgono di più e vite che valgono di meno, che esista una gerarchia tra esseri umani e animali o tra animali e animali, o tra le diverse forme del vivente, sacrificabili se c’è un fine ritenuto “più alto” — è qualcosa che mi fa inorridire. Respingo con tutta la forza questa idea e a qualsiasi costo.
Ognuno faccia le proprie riflessioni, in silenzio se serve. E si chieda, senza fretta, se tutto questo ha davvero un senso.
Retroscena sui proiettili magici di Paul Ehrlich
Der Freischütz (Il franco cacciatore) è un’opera romantica in tre atti composta da Carl Maria von Weber nel 1821, su libretto di Friedrich Kind. Considerata una pietra miliare del primo romanticismo tedesco, unisce elementi del folklore, del soprannaturale e della tensione morale, diventando simbolo di una riflessione profonda sul libero arbitrio e sulle tentazioni dell’uomo.
La trama
Il protagonista, Max, è un giovane cacciatore innamorato di Agata, figlia del capo guardiacaccia Kuno. Per ottenere la sua mano, deve superare una prova di tiro: colpire il bersaglio davanti al principe e al popolo. Ma Max ha perso fiducia in sé stesso, è in crisi dopo numerosi fallimenti, e teme di deludere Agata e di perdere tutto. In questa fragilità si insinua Gasparo, un altro cacciatore che ha già venduto l’anima al demonio Samiel: lo convince a forgiare insieme sette proiettili magici (Zauberkugeln), che colpiscono infallibilmente, ma con un patto oscuro. Sei proiettili saranno guidati dalla volontà di chi spara, ma il settimo — quello decisivo — sarà controllato dal demonio.
Durante la gara, Max spara il settimo colpo. Il bersaglio è un uccello, ma la traiettoria devia e la pallottola si dirige verso Agata, che assiste alla scena. Tutti credono che sia stata colpita a morte. Invece, grazie all’intervento di un eremita, figura spirituale e salvifica, Agata è salva: la pallottola colpisce Gasparo, che muore. L’inganno viene svelato. Il principe Ottokar, inizialmente deciso a punire Max con l’esilio, ascolta l’eremita e acconsente a una via di redenzione: Max potrà sposare Agata solo dopo un anno di condotta irreprensibile.
Il proiettile magico come scorciatoia e monito
Nel cuore di questa storia c’è un messaggio potente: il proiettile magico è una scorciatoia. Nasce dalla paura di fallire, dal timore di non essere “abbastanza”, dalla tentazione di delegare il proprio destino a forze esterne. È un mezzo che promette controllo assoluto sull’esito, ma toglie responsabilità e introduce rischi incalcolabili. Max non sbaglia perché è malvagio, ma perché ha perso fiducia in sé stesso e ha smarrito il confine tra il desiderio e il dovere.
Questa dinamica, nata nella finzione teatrale, sembra riverberarsi sorprendentemente nel mondo della ricerca scientifica. Quando Paul Ehrlich scelse la metafora del magic bullet per descrivere il farmaco ideale — in grado di colpire un bersaglio e solo quello, senza effetti collaterali — evocò non solo la precisione farmacologica, ma anche, forse inconsapevolmente, l’ambivalenza di quella promessa. Come nella leggenda, anche nella scienza la fiducia cieca in una “soluzione perfetta” può diventare una delega pericolosa, se si dimenticano le responsabilità etiche, le complessità biologiche, e gli effetti collaterali non previsti.
Forse ciò che più merita attenzione è questo: che ogni concetto — e persino ogni oggetto — porta con sé istanze originarie che non si dissolvono, ma si trasformano e riverberano in ogni passaggio successivo. Così, anche il “proiettile magico” scientifico sembra continuare a riflettere, in forme nuove, i significati profondi inscritti nella leggenda da cui trae nome.